
Una volta arrivata alla stazione ferroviaria di Kiruna, tutti intorno a me sembravano assomigliarmi: dozzine di turisti coperti da strati di vestiti termici, macchina fotografica appesa al collo e tutto il resto dell’attrezzatura infilata nello zaino. Avrei potuto scommettere che ognuno dei presenti, esattamente come me, aveva deciso di partire per la Lapponia proprio quel giorno perché le probabilità di avvistamento delle luci nell’app My Aurora erano parecchio alte.

A distinguersi dalla folla, davanti a dei furgoncini con tante piccole stalattiti che pendevano dai parafanghi, un paio di abitanti del posto che per guadagnarsi da vivere organizzavano delle attività per i turisti come me. Alla domanda “Ma quindi stasera l’Aurora riusciremo a vederla?”, la mia guida, un ragazzo dalla barba e i capelli lunghi e biondi, nella mia testa subito così simile ad un vichingo del passato, sorrise e fece spallucce; “Aspetteremo e vedremo” fu la sua risposta pacata. Ricordo di essermi sentita delusa da quelle parole, forse anche un po’ imbarazzata. Cosa pensavi, Federica?
Credevi di arrivare in Lapponia e trovare l’Aurora Boreale ad aspettarti immobile come se fossi davanti alla Tour Eiffel a Parigi? In quel preciso momento non solo iniziai a metabolizzare il fatto che forse quella sera le magiche luci del Nord si sarebbero fatte aspettare a lungo, forse senza neanche mai arrivare, ma soprattutto realizzai che alla fine sarebbe stato meraviglioso lo stesso. Nella mia ingenuità mi ero immaginata la Lapponia come una specie di museo dove bastava pagare il biglietto d’ingresso per assicurarsi un posto in prima fila allo spettacolo delle luci, senza considerare che la natura, da sempre, non si fa di certo comandare da noi uomini.
Le parole di quel ragazzo lappone mi avevano fatto capire che il bello dell’Aurora Boreale, la sua vera magia, stava proprio nel suo essere così imprevedibile.

Più tardi quel giorno, una volta che il cielo si era fatto completamente buio, la guida “vichinga” e il suo collega presero una decina di sedie da campeggio dal retro della casetta in legno dove avremmo trascorso la notte, le posizionarono sotto la porzione di cielo che non era coperta dagli alberi e ci fecero segno di accomodarci.
Capii che l’attesa sarebbe iniziata in quel momento. L’Aurora sarebbe potuta apparire da un momento all’altro, oppure non arrivare mai. Chissà.
Con il cuore che mi batteva all’impazzata posizionai il cavalletto della mia macchina fotografica su un punto che mi sembrava adatto e presi posto sulla sedia. La prima cosa che pensai non appena alzai gli occhi al cielo fu che quella sera, a farci compagnia mentre aspettavamo l’Aurora, ci avrebbero pensato le stelle. Non avevo mai visto nulla di così bello. Provai nostalgia per qualcosa che stavo ancora vivendo.
Dopo ore di attesa passate a fare turni per andare a scaldarsi intorno al camino della casetta, senza però mai lasciare che il cielo rimanesse incustodito, le prime luci iniziarono timidamente ad apparire sopra alle nostre teste. Descrivere a parole l’emozione che provai in quel momento non è per niente facile, e forse non ha neanche senso provarci. Quello che però ci tengo a dire, e che vuole anche essere la morale di questa mia storia, è che di quell’istante ricordo perfettamente il silenzio. Tutti i presenti, che fino ad un secondo prima erano stati intenti a chiacchierare, si erano improvvisamente ammutoliti. Nessuno, compresa me, era riuscito a farsi cogliere preparato da quel meraviglioso spettacolo della natura.

Secondo un’antica credenza Sami, per evitare di infastidire gli spiriti del cielo è severamente vietato fischiare, applaudire o fare qualsiasi tipo di rumore in presenza dell’Aurora Boreale. Mi fa sempre sorridere pensare a come, nonostante la maggior parte dei presenti all’epoca non ne fosse a conoscenza, ci fosse venuto naturale farci da parte e lasciare che fosse Lei l’unica a parlare.
Federica Bareato