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“Il rogo di Berlino” mostra una Berlino mai vista prima

I tede­schi era­no poi così diver­si dagli altri esse­ri uma­ni duran­te la secon­da guer­ra mon­dia­le?                                                                                           

Dopo aver affron­ta­to la let­tu­ra del roman­zo Il rogo di Ber­li­no di Hel­ga Sch­nei­der, per la gior­na­ta del­la memo­ria, ho ini­zia­to a riflet­te­re; chi era­no dav­ve­ro i buo­ni e chi dav­ve­ro i cat­ti­vi duran­te la guer­ra? A pare­re mio in tem­pi di guer­ra non ci sono mai per­so­nag­gi total­men­te bian­chi o per­so­nag­gi total­men­te neri, piut­to­sto pos­so­no esser­ci varie sfu­ma­tu­re di gri­gio; infat­ti oggi vor­rei pro­va­re a riflet­te­re sull’altro lato del­la meda­glia del­la secon­da guer­ra mon­dia­le: la popo­la­zio­ne civi­le tede­sca. Tut­ti sap­pia­mo le atro­ci­tà com­mes­se dal­la Ger­ma­nia, l’olocausto, i cam­pi di con­cen­tra­men­to, lo ster­mi­nio degli ebrei, ma tut­ti i tede­schi era­no dei mostri?

 Ho ama­to Il rogo di Ber­li­no sin dal­le pri­me pagi­ne, non è una let­tu­ra for­se adat­ta a tut­ti, è una let­tu­ra mol­to for­te, inten­sa, den­sa di real­tà e cru­del­tà. Vedia­mo la guer­ra dagli occhi di Hel­ga, una bam­bi­na tede­sca che è cre­sciu­ta, soprav­vis­su­ta alla guer­ra e che ha scrit­to le pagi­ne che io mi sono tro­va­ta a leg­ge­re con tan­ta curio­si­tà, con il cuo­re spez­za­to per il dolo­re, con tan­ta spe­ran­za per il futu­ro del­le per­so­ne bloc­ca­te in quel­la can­ti­na. Una can­ti­na di un palaz­zo di Ber­li­no, ma non la Ber­li­no che ci imma­gi­nia­mo noi oggi, la Ber­li­no deva­sta­ta dal­la guer­ra, una cit­tà fan­ta­sma, che sem­bra ani­ma­ta solo dal rumo­re assor­dan­te del­le bom­be sovie­ti­che. Pagi­ne ric­che di espe­rien­ze dram­ma­ti­che che la scrit­tri­ce ha vis­su­to sul­la sua pel­le: il ter­ro­re del­la guer­ra, la man­can­za di affet­to da par­te di Ursu­la, la sua matri­gna, che non ha mai visto Hel­ga come se fos­se sua figlia, cosa che inve­ce fece con Peter, il fra­tel­lo di Hel­ga. 

 Per mesi e mesi Hel­ga e la sua fami­glia si rifu­ge­ran­no in una can­ti­na buia, maleo­do­ran­te, per non mori­re sot­to la piog­gia di bom­be che ogni gior­no pro­va a met­te­re in ginoc­chio Ber­li­no. Ecco, io dopo le pri­me cin­quan­ta pagi­ne ho ini­zia­to a chie­der­mi se dav­ve­ro solo i tede­schi fos­se­ro i cat­ti­vi, per­ché dopo aver let­to lo sce­na­rio che vi ho appe­na descrit­to ho riflet­tu­to un atti­mo. Non per­ché pat­teg­gias­si per loro, ma solo per­ché tan­ta disu­ma­ni­tà non la meri­ta nes­su­no. 

In que­sto libro c’è tan­to, tan­ta con­sa­pe­vo­lez­za, tan­ta pau­ra del pun­to fino a cui può spin­ger­si la cru­del­tà uma­na.  C’è anche l’incertezza sul doma­ni, sul futu­ro che ci spet­ta; in quel­la can­ti­na di Ber­li­no spes­so ci si chie­de se si soprav­vi­ve qual­che ora in più, se si arri­va vivi al gior­no suc­ces­si­vo. 

Non sono riu­sci­ta a leg­ge­re que­sto roman­zo tut­to d’un fia­to, mol­te vol­te sono sta­ta costret­ta a fer­mar­mi, per assi­mi­la­re ciò che ave­vo appe­na let­to, per asciu­gar­mi le lacri­me, per­ché sì, ho pian­to come una fon­ta­na. Mi sono sen­ti­ta mol­to vici­na ad Hel­ga, gira­ta l’ultima pagi­na non me la sen­ti­vo di lasciar­la anda­re, la sen­ti­vo come se potes­se esse­re mia sorel­la mino­re, mia cugi­na, ma comun­que mol­to matu­ra per esse­re anco­ra una bam­bi­na. Devo ammet­te­re che seb­be­ne sia pas­sa­to un mese da quan­do ho ulti­ma­to la let­tu­ra, pen­so anco­ra a que­sto libro, a que­sta sto­ria.  

Il bel­lis­si­mo lega­me tra Hel­ga e Opa (il padre del­la sua matri­gna) mi ha scal­da­to il cuo­re, mi ha pro­fon­da­men­te com­mos­sa, pen­so che sia il fat­to­re che più mi ha fat­to ama­re que­sto libro e che mi ha fat­to met­te­re in discus­sio­ne l’idea che tut­ti i tede­schi fos­se­ro dei nazi­sti con­vin­ti. Anche tra di loro c’erano per­so­ne che non si meri­ta­va­no il desti­no a cui sono poi sta­te lascia­te. 

Un rap­por­to che ha dona­to un pò di calo­re e sen­si­bi­li­tà ad un mon­do che ormai non ne sem­bra­va più capa­ce. 

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Isa­bel­la Cra­veia