La morale di un saggio inascoltato

Ecco un breve racconto dedicato all’importanza dell’ascolto reciproco per combattere la distruzione del pensiero, ovvero di una vita che avrebbe avuto molto da dire.

Ho sen­ti­to par­la­re di un uomo sag­gio che il rapi­do ince­de­re dei gior­ni ave­va infi­ne con­dot­to alle soglie del­la mor­te. 

Anni di fati­che sareb­be­ro ser­vi­ti per lo sco­po a cui solo allo­ra si accin­ge­va, ma ugual­men­te, per la pri­ma vol­ta incal­za­to da que­sto desi­de­rio, ave­va sen­ti­to di dover met­te­re per iscrit­to ciò che di più alto il suo inge­gno era sta­to capa­ce di con­ce­pi­re in tut­to quel tem­po. Era costui uno sti­ma­to pro­fes­so­re che fin dal prin­ci­pio del­la sua car­rie­ra ave­va divul­ga­to e riflet­tu­to, riflet­tu­to e divul­ga­to. Ma ciò che divul­ga­va non era mai sta­to il frut­to del­la sua rifles­sio­ne. E que­sto era dav­ve­ro un cri­mi­ne, poi­ché ne avreb­be avu­te di cose da dire. E la ragio­ne di que­sta cir­co­stan­za era ancor più cri­mi­no­sa, ovve­ro che nes­su­no fino a quel momen­to si era det­to dispo­sto ad ascol­ta­re quan­to di straor­di­na­rio ave­va da dire. Piut­to­sto tut­ti pen­de­va­no dal­le sue lab­bra quan­do si trat­ta­va di ascol­ta­re ciò che gli Altri, i som­mi pen­sa­to­ri, ave­va­no da dire per boc­ca sua. E infat­ti, qua­le dirit­to ave­va lui di richia­ma­re al silen­zio quell’immenso udi­to­rio che aspet­ta­va sol­tan­to di lasciar­si tra­spor­ta­re dal­le intui­zio­ni dei gran­di geni del pas­sa­to? E se non aves­se pre­so que­sta estre­ma deci­sio­ne, che per­di­ta sareb­be sta­ta per l’umanità inte­ra! Que­gli alti con­cet­ti da tem­po impres­si nel­la sua memo­ria ave­va­no del mira­co­lo­so e anche solo veden­do la sua figu­ra avre­sti avu­to l’impressione che nes­su­no più di lui fos­se sta­to capa­ce di pene­tra­re la veri­tà in modo così pro­fon­do. Eppu­re nes­su­no sem­bra­va dispo­sto ad ascol­tar­la, code­sta veri­tà. 

Per­ché que­sta fata­le riso­lu­zio­ne sia giun­ta così tar­di non mi è dato saper­lo, ciò non­di­me­no ho l’impressione che quell’uomo sot­to­sti­mas­se nel pro­fon­do la scrit­tu­ra, che la vedes­se più come una pri­gio­ne del pen­sie­ro che uno stru­men­to uti­le a immor­ta­lar­lo. Alcu­ni cono­scen­ti inve­ce sosten­go­no che le rifles­sio­ni lo sfi­nis­se­ro a tal pun­to da non con­ce­der­gli ulte­rio­ri sfor­zi, e su que­sta linea appa­io­no schie­ra­ti anche gli stu­dio­si che da qual­che tem­po han­no pre­so ad inte­res­sar­si a que­sta biz­zar­ra per­so­na­li­tà, i qua­li sem­pli­ce­men­te non rie­sco­no a capi­re che cosa ci sia di male nel­la scrit­tu­ra. Que­sta loro spie­ga­zio­ne, a mio pare­re trop­po sem­pli­ci­sti­ca, si nutre e allo stes­so tem­po ali­men­ta il mito che attor­no a lui si è crea­to, il mito di un lavo­ra­to­re instan­ca­bi­le e tut­to pro­te­so alla  ricer­ca del­la veri­tà. Non c’è dub­bio che la pri­va­zio­ne del son­no e del cibo abbia­no anti­ci­pa­to la mor­te, che pure dove­va esse­re immi­nen­te. Nei pochi gior­ni in cui scris­se riem­pì di inchio­stro deci­ne di pagi­ne sen­za mai rileg­ger­le nean­che una vol­ta e sen­za esi­ta­zio­ne, poi­ché la rifles­sio­ne era tal­men­te chia­ra nel­la sua men­te, che da qual­sia­si pun­to del ragio­na­men­to fos­se par­ti­to sareb­be sta­to in gra­do di rico­struir­lo per inte­ro con pre­ci­sio­ne. Quan­do il cor­po fu rin­ve­nu­to, acca­scia­to sul­la scri­va­nia del suo stu­dio­lo, di tut­to quel pli­co non era rima­sto alcun­ché. Tut­ti i fogli era­no sta­ti fat­ti a bran­del­li da un incon­sa­pe­vo­le taglia­car­te e per tut­ta la stan­za rima­ne­va­no spar­si i fram­men­ti di quel­la san­gui­no­sa bat­ta­glia. Nul­la di leg­gi­bi­le era rima­sto se non un mise­ro stral­cio di car­ta che però non era pas­sa­to nel­la mac­chi­na distrug­gi-pen­sie­ro. Era scrit­to a mati­ta, con una gra­fia illeg­gi­bi­le, for­se frut­to di un’iniziativa improv­vi­sa, for­se appe­na pre­ce­den­te all’istante fata­le. Si trat­ta­va di un pen­sie­ro, anzi di un resi­duo di pen­sie­ro o la sua più azzec­ca­ta sin­te­si, for­se un rim­pro­ve­ro o più pro­ba­bil­men­te un invi­to a non per­met­te­re che di altre sin­fo­nie riman­ga sol­tan­to un’unica, insi­gni­fi­can­te nota. Sul­la car­ta com­pa­ri­va la paro­la “ango­scia”, lascia­ta a metà.

Cor­no Ste­fa­no