
I videogiochi sono da molti considerati ancora come un puro e semplice svago, scollegati e distanti da qualsiasi forma di arricchimento culturale e privi di risvolti emotivi.
Poco importa che dietro ci sia il lavoro di scrittori, registi, artisti e programmatori, il mezzo videoludico sarà sempre considerato inferiore rispetto ad altri media come il cinema e la letteratura.
Viene naturale chiedersi quindi da dove nasca questo preconcetto, e non si può fare a meno di guardare a quelle software house (aziende che sviluppano videogiochi) che su questo aspetto hanno costruito la propria strategia commerciale; a livello globale, infatti, questo mercato vale decine di miliardi di dollari, e il consumatore medio non ha interesse nei confronti di un prodotto che non sia di facile accesso.
Meccanismi di vendita di questo tipo sono ovviamente diffusi anche per la letteratura, tuttavia in questo campo spesso si riscontra la tendenza a distinguere autori e opere di un certo livello rispetto alle altre, basti solo pensare ai giudizi che continuamente sono riportati da critici di ogni ordine.
In fin dei conti però il videogioco è nato piuttosto recentemente ed è da relativamente poco che la tecnologia, soprattutto grazie allo sviluppo di nuove e più prestanti console, ha permesso di legare una narrazione efficace a un mondo di gioco ben realizzato e significativo dal punto vista artistico.
D’altronde il cinema non è di certo diventato importante nell’immediato, ma è stato protagonista di un processo di transizione da curiosa invenzione utilizzata solo in ambito documentaristico a mezzo di diffusione presso il grande pubblico che è durato circa 30 anni.
Sicuramente è poi presente un fattore generazionale legato ad una concezione conservatrice della società da parte della popolazione adulta che per ora rappresenta la maggioranza delle persone, la loro influenza sul mondo dei videogiochi è solo uno dei tanti sintomi di questo conservatorismo.
Complessivamente quindi la questione non risulta essere poi tanto diversa da quella che ha caratterizzato, ad esempio, l’espansione della Pop Art negli anni 50’ e 60’. All’epoca infatti l’idea che un’opera realizzata a partire da cartelloni pubblicitari o da oggetti di consumo potesse essere considerata come una forma d’arte era piuttosto controversa, e tuttora molti non ne capiscono il senso.
Se si esamina però il mondo dell’arte contemporanea, si nota come la risposta da parte degli artisti e della critica sia stata quella di isolare il pubblico, ritenendolo incapace di comprendere il significato di espressioni creative sempre più complesse.
Considerata quindi la difficoltà di comunicazione, che trae le sue origini anche da una questione generazionale, la mia paura è che la risposta dell’industria dei videogiochi sia quella di chiudersi in sé stessa, dando retta esclusivamente alle opinioni dei critici da un lato, e dall’altro proponendo prodotti che vadano bene solo per il grande pubblico, evitando quindi di sperimentare e di far progredire il settore.
Gli effetti sopracitati sono già evidenti considerando la straordinaria proliferazione di giochi come FIFA e Call of Duty (che ha anche conquistato il mercato mobile). Questi due, come molti altri titoli, si rivolgono ad una grande fetta dei videogiocatori proponendo con una frequenza quasi annuale dei titoli che nella sostanza rimangono sempre uguali e gli unici passi avanti che vengono fatti sono nel motore grafico. La tendenza quindi è quella di rimanere nella “comfort zone” proponendo oggi volta la stessa formula vista e rivista con qualche miglioramento piuttosto che prendersi un rischio e sperimentare nuove ambientazioni o nuove dinamiche di gioco.
In conclusione spero che con la diffusione del videogioco e con la sua progressiva integrazione nel mondo di tutti i giorni la parte più innovativa del mercato videoludico possa ricevere più attenzioni regalandoci titoli originali ed esperienze di gioco uniche.
Di Nicola Nespoli
