Monet e la luce

Si con­clu­de­va nel 1918 il buio capi­to­lo del pri­mo con­flit­to mon­dia­le, e il pit­to­re fran­ce­se Clau­de Monet sop­pe­ri­va alle sof­fe­ren­ze che la guer­ra gli ave­va pro­cu­ra­to rifu­gian­do­si nel suo pic­co­lo locus amoe­nus nor­man­no, pres­so la cit­ta­di­na di Giver­ny. Ed è pro­prio all’interno di que­sto giar­di­no, acqui­sta­to nel 1893, che l’artista rea­liz­zò un mode­sto nin­feo desti­na­to a diven­ta­re sog­get­to di cir­ca 250 tele, una vera e pro­pria “musa” per il pit­to­re impres­sio­ni­sta, e un appar­ta­to luo­go di osser­va­zio­ne dei dina­mi­ci gio­chi di luce e colo­re che inve­sti­va­no la flo­ra pre­sen­te nel baci­no. 

Monet

Attra­ver­so un’analisi cri­ti­ca del­le Nin­fee dipin­te da Monet, emer­ge la meti­co­lo­sa atten­zio­ne rivol­ta all’osservazione dei rifles­si pro­dot­ti dal­le acque e degli effet­ti cro­ma­ti­ci che i feno­me­ni lumi­no­si pro­du­co­no. Si trat­ta di un accu­ra­to stu­dio del­la luce che, però, non vie­ne tra­sfe­ri­to con la stes­sa pre­ci­sio­ne sul­la tela: i fio­ri acqua­ti­ci e il pae­sag­gio cir­co­stan­te sono defi­ni­ti, per lo più, da pen­nel­la­te rapi­de, appros­si­ma­ti­ve, con­for­mi ai cano­ni del­la pit­tu­ra impres­sio­ni­sta.

Allon­ta­nan­do­si per un’istante dall’orizzonte arti­sti­co e con­te­stua­liz­zan­do le tele del­le Nin­fee nel perio­do in cui furo­no rea­liz­za­te, si capi­sce come l’interesse per i feno­me­ni lumi­no­si non fos­se del tut­to casua­le. A caval­lo tra i seco­li dician­no­ve­si­mo e ven­te­si­mo, infat­ti, si con­so­li­da­ro­no gra­zie agli espe­ri­men­ti di due pio­nie­ri del­la fisi­ca moder­na

Monet e Einstein

Albert Ein­steinJames Clerk Max­well – le due con­tra­stan­ti ma com­ple­men­ta­ri teo­rie sul­la natu­ra del­la luce, cor­pu­sco­la­re e ondu­la­to­ria. I due furo­no, ad ogni modo, sola­men­te l’ultimo anel­lo di una cate­na di dibat­ti­ti, teo­rie, espe­ri­men­ti, ipo­te­si e pas­si fal­si ini­zia­ta in un’epoca tutt’altro che recen­te.

Fu il gre­co Demo­cri­to, capo­scuo­la dell’atomismo, ad avvia­re nel V seco­lo a.C. il dibat­ti­to sull’essenza del­la luce. Nei loro testi, gli ato­mi­sti for­ni­ro­no un’accurata descri­zio­ne del­la for­ma­zio­ne del­le imma­gi­ni all’interno dell’occhio uma­no:

l’immagine si impri­me nell’aria che si frap­po­ne tra l’occhio e l’oggetto visto e che vie­ne da que­sti com­pres­sa. Ciò per­ché da tut­te le real­tà si pro­du­ce sem­pre un efflu­vio, il qua­le, poi, essen­do soli­do e assu­men­do tut­ti i colo­ri, appa­re nell’elemento umi­do degli occhi, men­tre l’elemento den­so non lo rece­pi­sce, al con­tra­rio di quel­lo umi­do che si lascia pene­tra­re”

Demo­cri­to e i suoi segua­ci, negan­do l’esistenza di qua­lun­que ente incor­po­reo e la pos­si­bi­li­tà di ogni cono­scen­za che non aves­se come fon­da­men­to il con­tat­to diret­to, rite­ne­va­no che luce e imma­gi­ne degli fos­se­ro un insie­me di pic­co­le par­ti­cel­le invi­si­bi­li, costi­tuen­ti un efflu­vio che, fuo­riu­scen­do da un cor­po ester­no e impri­men­do­si sul­la reti­na dell’occhio uma­no, fos­se in gra­do di gene­ra­re l’immagine dell’oggetto.

 Qua­si un seco­lo più tar­di, suben­trò nell’accesa discus­sio­ne Ari­sto­te­le, che all’interno del trat­ta­to Dell’Anima si espres­se sull’argomento con que­ste paro­le: 

Chia­mo dia­fa­no ciò che è sì visi­bi­le, però, a par­la­re pro­pria­men­te, non visi­bi­le per sé ma median­te un colo­re estra­neo. Tali sono l’aria, l’acqua e mol­ti dei cor­pi soli­di: ma non in quan­to acqua, né in quan­to aria sono dia­fa­ni, ben­sì per­ché vi è in essi una qua­li­tà natu­ra­le, la stes­sa che è in entram­bi e nel cor­po eter­no in alto (ossia l’etere) “

Aristotele

Ari­sto­te­le rite­ne­va che la luce fos­se una pro­prie­tà acci­den­te dei cor­pi dia­fa­ni (o tra­spa­ren­ti) e che essen­do appun­to una qua­li­tà e non una sostan­za, non potes­se ave­re un’esistenza indi­pen­den­te o carat­te­re cor­po­reo. Il filo­so­fo gre­co cer­cò, inol­tre, di spie­ga­re l’alternanza tra luce e buio, ricor­ren­do ai con­cet­ti di atto e di poten­za: attri­buì ai cor­pi illu­mi­na­ti da un ogget­to defi­ni­to auto-lumi­no­so (il sole, per esem­pio) lo sta­to di lumi­no­si­tà in atto e ai cor­pi posti al buio lo sta­to di lumi­no­si­tà in poten­za. Rifiu­tan­do la cor­po­rei­tà del­la luce Ari­sto­te­le diven­ne, di fat­to, il pri­mo soste­ni­to­re del model­lo ondu­la­to­rio.

Teo­rie affa­sci­nan­ti quel­le degli anti­chi gre­ci, ma pri­ve di fon­da­men­to spe­ri­men­ta­le e mate­ma­ti­co. Il dibat­ti­to ven­ne ripre­so parec­chi seco­li più tar­di, nel­la secon­da metà del 1600, e vide a capo del­le oppo­ste fazio­ni Isaac New­ton, soste­ni­to­re del model­lo cor­pu­sco­la­re, e Chri­stiaan Huy­gens, fau­to­re del model­lo ondu­la­to­rio. Gra­zie alla fama che le teo­rie sul­la gra­vi­ta­zio­ne gli pro­cu­ra­ro­no, l’inglese ebbe la meglio pres­so la comu­ni­tà scien­ti­fi­ca del tem­po. Tut­ta­via, New­ton sem­brò – o for­se pre­te­se – di non accor­ger­si di un gra­ve erro­re da lui com­mes­so nell’illustrazione dei feno­me­ni lumi­no­si: il model­lo cor­pu­sco­la­re sem­bra­va esse­re sta­to crea­to ad hoc per spie­ga­re la for­ma­zio­ne del­le ombre e la rifles­sio­ne, ma come inter­pre­ta­re la rifra­zio­ne dei rag­gi di luce? Il padre del­la gra­vi­ta­zio­ne uni­ver­sa­le attri­buì la varia­zio­ne di velo­ci­tà dei cor­pu­sco­li lumi­no­si ad una for­za agen­te sul­la super­fi­cie di sepa­ra­zio­ne tra i due mez­zi tra­spa­ren­ti. New­ton con­clu­se che la velo­ci­tà del­la luce nell’aria doves­se esse­re mino­re rispet­to a quel­la nell’acqua o nel vetro. Si trat­tò di un pas­so fal­so: i suc­ces­si­vi espe­ri­men­ti dei fran­ce­si Fizeau e Fou­cault cal­co­la­ro­no appros­si­ma­ti­va­men­te il valo­re del­la velo­ci­tà del­la luce e l’ipotesi di New­ton ven­ne smen­ti­ta.

Newton

 Il 1800 fu, per così dire, il seco­lo d’oro del model­lo ondu­la­to­rio. Nel 1801, infat­ti, il fisi­co bri­tan­ni­co Tho­mas Young riu­scì a dimo­stra­re la natu­ra ondu­la­to­ria del­la luce osser­van­do i feno­me­ni di inter­fe­ren­za e dif­fra­zio­ne, e mez­zo seco­lo più tar­di Max­well, appli­can­do le recen­ti sco­per­te effet­tua­te, defi­nì la luce come onda elet­tro­ma­gne­ti­ca. Agli albo­ri del XX seco­lo però, con la sco­per­ta dell’effetto foto-elet­tri­co da par­te di Albert Ein­stein, ven­ne riva­lu­ta­to il model­lo cor­pu­sco­la­re, e agli occhi del­la comu­ni­tà scien­ti­fi­ca di ini­zio seco­lo risul­tò chia­ro che la que­stio­ne lega­ta alla for­ma­zio­ne del­le ombre e alla rifles­sio­ne doves­se, neces­sa­ria­men­te, tro­va­re solu­zio­ne nei foto­ni.

Oggi, gra­zie alle sco­pe­re­te del­la mec­ca­ni­ca quan­ti­sti­ca, entram­bi i model­li sono con­si­de­ra­ti vali­di, com­ple­men­ta­ri, in quan­to in gra­do di descri­ve­re dif­fe­ren­ti com­por­ta­men­ti del­la luce; par­lia­mo quin­di di un dua­li­smo onda-par­ti­cel­la

Viven­do in un’epoca carat­te­riz­za­ta da un tale fer­men­to scien­ti­fi­co attor­no alla natu­ra del­la luce, Monet non poté di cer­to igno­ra­re le recen­ti sco­per­te dei suoi con­tem­po­ra­nei. In un cer­to sen­so, anche l’impressionista fran­ce­se, nel suo paci­fi­co giar­di­no, sem­bre­reb­be inter­pre­ta­re con le fret­to­lo­se pen­nel­la­te che carat­te­riz­za­no la sua pro­du­zio­ne pit­to­ri­ca i feno­me­ni lumi­no­si, con­tri­buen­do, con que­sta nuo­va sen­si­bi­li­tà, al pro­gres­so del suo seco­lo.

Gaia Zanot­ti