Non al denaro non all’amore nè al cielo

Libertà l’ho vista svegliarsi 

Ogni volta che ho suonato

Pro­nun­cia­va que­ste paro­le Fabri­zio de Andrè quan­do can­ta­va Il Suo­na­to­re Jones, nona ed ulti­ma trac­cia dell’album “Non al dena­ro non all’amore nè al cie­lo”. 

Sca­van­do un po’ a fon­do nel­la sto­ria del disco si sco­pre che però non si trat­ta di paro­le ori­gi­na­li del can­tau­to­re ita­lia­no, ben­sì del­la tra­du­zio­ne, sep­pur rein­ter­pre­ta­ta, del­la poe­sia “Fidd­ler Jones” di Edgar Lee Masters, auto­re vis­su­to nel Mid­We­st ame­ri­ca­no tra il 1868 ed il 1950. Per­si­no il tito­lo dell’album si deve ad un ver­so (nor love nor gold nor hea­ven) di “The Hill”, poe­sia che apre l’Antologia di Spoon River.

Rac­col­ta di 244 epi­taf­fi, ognu­no dei qua­li reci­ta­to da un abi­tan­te defun­to di un’immaginaria cit­ta­di­na dell’Illinois che mol­to plau­si­bil­men­te risul­ta dall’unione di due luo­ghi nei qua­li vis­se Masters duran­te l’infanzia, Lewi­sto­wn e Peter­sburg, Spoon River Antho­lo­gy è arri­va­ta in Ita­lia si potreb­be dire qua­si per mira­co­lo. Duran­te il ven­ten­nio fasci­sta, infat­ti, la let­te­ra­tu­ra ame­ri­ca­na, di ispi­ra­zio­ne demo­cra­ti­ca e liber­ta­ria, non era vista di buon occhio e spes­so era desti­na­ta alla cen­su­ra. Tut­ta­via, Cesa­re Pave­se, illu­stre let­te­ra­to ed auto­re ita­lia­no, riu­scì nel 1943 a por­ta­re il volu­me, tra­dot­to da Fer­nan­da Piva­no, in Ita­lia uti­liz­zan­do un astu­to stra­ta­gem­ma. Il tito­lo dato all’opera fu infat­ti “Anto­lo­gia di S. River” e, stan­do alle paro­le di Pave­se (rife­ri­te dal­la Piva­no nel cor­so di un’intervista), a esse­re appro­va­ta fu la pub­bli­ca­zio­ne dell’antologia di que­sto nuo­vo San­to.

De Andrè nel 1971, pas­sa­ti 56 anni dal­la pub­bli­ca­zio­ne del volu­me di Masters, pub­bli­ca un disco com­po­sto da nove pez­zi, ognu­no dei qua­li fa rife­ri­men­to ad una del­le poe­sie dell’Antologia di Spoon River. Così come per quest’ultima ad apri­re l’intera rac­col­ta si tro­va “The Hill”, la pri­ma trac­cia dell’album è “La col­li­na”. Dor­mo­no, dor­mo­no sul­la col­li­na. 

Bre­ve­men­te ven­go­no in entram­be le ver­sio­ni cita­ti alcu­ni dei per­so­nag­gi che pren­de­ran­no la paro­la nel cor­so del­la rac­col­ta, o dell’album. Ad ecce­zio­ne di que­sto pri­mo bra­no, infat­ti, sia per quan­to riguar­da le can­zo­ni di De Andrè che i testi di Masters, chi par­la sono i mor­ti. Ed è pro­prio que­sto a per­met­te­re loro di offri­re una com­ple­ta e tota­le visio­ne del­la vita, così come è sta­ta: non pos­so­no per­der­ci nien­te, pos­so­no rac­con­ta­re ogni cosa con la più asso­lu­ta sin­ce­ri­tà.

Il nostro De Andrè pren­de una stra­da leg­ger­men­te diver­sa da quel­la del cor­ri­spon­den­te ame­ri­ca­no. Men­tre i tito­li del­le poe­sie di que­sto por­ta­no il nome e cogno­me del defun­to che rac­con­ta la pro­pria sto­ria, le trac­ce dell’album sono inti­to­la­te con un nome gene­ri­co  (Un mat­to, Un giu­di­ce, Un bla­sfe­mo, Un mala­to di cuo­re, Un medi­co, Un chi­mi­co, Un otti­co). For­se nel­le inten­zio­ni del can­tau­to­re ita­lia­no c’è la volon­tà di sot­to­li­nea­re come alcu­ni com­por­ta­men­ti uma­ni sia­no costan­ti e vada­no dun­que a pre­scin­de­re dal­le epo­che sto­ri­che e dal­le coor­di­na­te geo­gra­fi­che che reca­no con sè un nome ed un cogno­me. L’unico a fare ecce­zio­ne è Il suo­na­to­re Jones che, come si può ben vede­re, vie­ne chia­ma­to con il nome pro­prio. Per­ché de André deci­de di chiu­de­re l’album rom­pen­do la rego­la che sem­bra­va esser­si pre­fis­sa­to?

Il Suo­na­to­re Jones è l’unico a mori­re sod­di­sfat­to, feli­ce del­la vita che ha vis­su­to. 

Finii con i cam­pi alle orti­che 

Finii con un flau­to spez­za­to 

E un ride­re rau­co 

E ricor­di tan­ti 

E nem­me­no un rim­pian­to 

I ended up with for­ty acres; 

I ended up with a bro­ken fidd­le– 

And a bro­ken lau­gh, and a thou­sand memo­ries, 

And not a sin­gle regret.

E for­se die­tro que­sta deci­sio­ne di De Andrè c’è una spe­ran­za, un mes­sag­gio: che l’artista, il musi­ci­sta, il can­tan­te, anche se pove­ro in can­na, anche se incom­pre­so, in fin dei con­ti è feli­ce, non ha rim­pian­ti, come inve­ce ha il resto del­la gen­te o come quel ric­co Coo­ney Pot­ter del­la rac­col­ta di Masters. For­se Fabri­zio De Andrè vole­va dir­ci que­sto: poco con­ta il resto, l’importante è tro­va­re la pro­pria stra­da ver­so la feli­ci­tà, anche se que­sta non doves­se esse­re la stes­sa degli altri.

Rebec­ca Spa­do­ne