
Risulta sorprendente, ed a tratti poco ottimistico, come un essere delle dimensioni di qualche centinaio di nanometri sia in grado di sovvertire così rapidamente l’ordine di una società, forte nel progresso della scienza e della medicina. È da parecchi mesi, ormai, che la quasi totalità degli stati del nostro pianeta si sta scontrando con un nemico invisibile, apparentemente inarrestabile, capace di propagarsi nell’aria e sulle superfici.
Le origini di questo patogeno sono ancora avvolte in una fitta nebbia di dubbio e la questione, non meno delle possibili cure per la malattia, divide l’opinione dei medici e degli esperti, impiegati in prima linea nella lotta contro il morbo. I fanatici delle teorie complottiste ritengono che il virus sia stato creato appositamente per lo scoppio di una guerra chimica contro gli Stati Uniti. Il fattore che suscita maggiore preoccupazione consta nell’ampio seguito che queste teorie, a cui la comunità scientifica non attribuisce alcun fondamento, trovano nell’opinione di un pubblico disinformato ed in preda al panico. Appoggiando questo genere di credenze, si incorre nel rischio di alimentare l’astio nei confronti dell’etnia o classe sociale identificata come potenziale untore, e, talvolta, questo rancore immotivato può sfociare in episodi di matrice xenofoba o razzista.
La ricerca di un “capro espiatorio” sembrerebbe la manifestazione di una tendenza tipicamente umana volta ad attribuire all’ “altro” (l’altro che professa una religione diversa, l’altro che proviene da un paese lontano, l’altro che appartiene ad un ceto sociale meno abbiente…) avversità, di cui si ignorano le cause. Si tratta di un fenomeno tutt’altro che moderno e la prima testimonianza di questo atteggiamento irrazionale è riportata nella Guerra del Peloponneso di Tucidide.

Nel suo capolavoro storiografico, lo storico greco narra come gli Ateniesi, di fronte alle prime vittime della pestilenza, accusino gli avversari in guerra, gli Spartani, di aver avvelenato i pozzi. La fanatica caccia all’untore è ripresentata dal Manzoni nella Storia della Colonna Infame e nel romanzo I Promessi Sposi. Alessandro Manzoni sottolinea gli esiti ingiusti che il panico del popolo e, ancor più, quello delle istituzioni può sortire nei confronti di innocenti malcapitati. Nella Storia della Colonna Infame, ad esempio, è narrata la vicenda giudiziaria del barbiere Giacomo Mora e del commissario della sanità Giuseppe Piazza, che, creduti responsabili del contagio, furono immeritatamente torturati e condannati a morte.

L’ignoranza che permea non soltanto tra la gente comune, ma anche, loro malgrado, tra i medici, i virologi e gli infermieri, alimenta la diffusione di notizie false, che causano, come abbiamo avuto modo di osservare nel corso di questa pandemia, confusione generalizzata.
L’incertezza degli inesperti li rende vittime facili degli speculatori senza scrupoli, i quali offrono sostanze dalla dubbia origine in grado di garantire l’immunità, finendo per incrementare la diffusione del morbo. E ‘interessante osservare come anche Daniel Defoe, descrivendo la peste che colpì Londra nel 1665, evidenzi l’aumento delle professioni non autorizzate, come gli indovini e i cartomanti, e menzioni la presenza di cartelloni pubblicitari raffiguranti pillole, pozioni e antidoti contro la pestilenza.
Se l’inesperienza rende i cittadini spettatori passivi, ma non meno responsabili, della battaglia contro il Virus (o contro la peste), il ruolo fondamentale è giocato dai medici e dai detentori del potere. L’esordio di un nuovo patogeno, che sia portatore di peste emorragica o polmonite, ha da sempre messo in difficoltà, almeno inizialmente, il sistema sanitario, impreparato ad una tale evenienza. Anche noi, nel corso della pandemia, abbiamo avuto modo di riscontrare questo fatto. Inizialmente i medici non conoscevano le modalità di trasmissione del Virus e la loro impreparazione li ha resi, per alcune settimane, impotenti di fronte al nuovo avversario. Il caso dei medici moderni non è di certo stato, nel corso della storia, un caso isolato.
Tucidide, sempre nella sua Guerra del Peloponneso, riporta che i medici, ignorando l’esistenza di un rimedio al morbo, si ammalavano più degli altri perché posti a contatto diretto con i contagiati.

Boccaccio mette in evidenza l’inefficacia dei rimedi medici, denunciando l’ignoranza dei dottori, il cui titolo veniva loro conferito benché essi non avessero “alcuna dottrina di medicina”.
L’ondata di panico generale, che si sperimenta nel corso di una pandemia, disgrega il tessuto sociale, abolendo ogni principio di affetto e logorando i legami familiari. Un elemento che accomuna le descrizioni della peste fornite da Ovidio, Lucrezio, Tucidide, Boccaccio e Daniel Defoe è la rinuncia a qualsiasi rapporto affettivo con i propri familiari, per il timore di contrarre il morbo. Un altro elemento che accomuna gli autori menzionati è il sovvertimento dello scenario urbano: i cadaveri ammucchiati su pire dalle grandi dimensioni, le fosse comuni, i templi impiegati come lazzeretti sono la testimonianza che, nel corso di un’epidemia e di fronte all’imminenza della morte, nulla ha più senso, né la religione, né gli affetti familiari.