
La nostra quotidianità è indubbiamente intrisa di innovazione e di tecnologia, allora perché nel ventunesimo secolo c’è ancora bisogno di parlare di parità e di inclusione? Non riusciamo a toglierci di dosso quei vecchi stereotipi cuciti come vecchi stracci. Cari lettori, tenetevi pronti e mettetevi scomodi, perché solo senza comodità sarete motivati a fare un passo avanti. L’unica cosa che dovrete portare in questo viaggio è una mente aperta, agli strumenti pensiamo noi: saranno pesanti, affilati e insidiosi. E cosa c’è di più tagliente e pericoloso di un libro?
Gli stereotipi sono ben radicati all’interno della nostra cultura: si tratta di schemi cognitivi, sulla base dei quali interpretiamo la realtà in situazioni ambigue e costruiamo delle aspettative sul comportamento altrui. Al giorno d’oggi parole come “sessismo” e “femminismo” sono sulla bocca di tutti, anche se molti ancora sostengono che non abbiano motivo di esistere. Siamo certi che il femminismo non abbia più motivo di esistere? Molti atteggiamenti, per quanto positivi in apparenza, contribuiscono a perpetuare una posizione di subalternità della donna rispetto all’uomo. A questo proposito, Glick e colleghi si sono espressi così: “anche gli atteggiamenti soggettivamente favorevoli nei confronti delle donne possono costituire delle forme di pregiudizio nella misura in cui sono funzionali a giustificare e a mantenere una situazione di subalternità femminile”. Glick e Fiske parlano di sessismo benevolente per intendere quegli atteggiamenti verso le donne che sono generalmente più positivi di quelli verso gli uomini: le donne sono pure, bisognose d’aiuto e vengono quindi poste in una posizione subordinata rispetto agli uomini, perpetuando così una forma di sessismo che viene trasmessa inconsapevolmente.
Accantoniamo però momentaneamente l’analisi dei singoli comportamenti e concentriamoci sul linguaggio comune, influenzato anch’esso da stereotipi. Maass parla di “linguistic intergroup bias”, che si verifica quando il linguaggio viene utilizzato in modo da rendere difficile la smentita di idee preesistenti sul proprio gruppo e su altri gruppi. I canali di comunicazione di massa riproducono stereotipi comuni attraverso l’esposizione ripetuta nei libri, in televisione e nei giornali. Fin da bambine, le ragazze sono esposte ad un’informazione mediatica che ritrae la donna come una fanciulla che aspetta il principe azzurro per essere salvata, come qualcuno che ha significato solo vicino ad un uomo. Per questo è importante trasmettere, ad esempio attraverso i libri, un modello ideale di donna che sia un’ispirazione positiva per le donne di oggi e di domani. Un personaggio femminile “forte” rappresenta il prototipo di personaggio che va al di là dei soliti stereotipi. Con ciò non intendo valorizzare solo i romanzi in cui vi sono donne toste, distaccate e/o aggressive: hanno lo stesso valore anche personaggi delicati, con ideali romantici e sogni nel cassetto. Ricordiamoci che la fragilità è una caratteristica costitutiva dell’essere umano e come tale è giusto che venga espressa e valorizzata. L’elemento chiave è senz’altro l’essere “proattivi” o “passivi”: la donna proattiva, intraprendente, che sceglie liberamente ed è orientata all’empowerment, è il modello da diffondere all’interno di un romanzo. Molti sarebbero i libri da citare, ma ho pensato di consigliarvi due titoli. Si tratta di libri che spaziano dal “classico” al “moderno”, ma che condividono entrambi dei personaggi femminili “forti”.

Piccole donne di Louisa May Alcott è un romanzo classico molto conosciuto, stampato in diverse edizioni e da cui hanno tratto molti film. Meg, Jo, Beth ed Amy ti trasportano con dolcezza e delicatezza all’interno della loro vita, seguendo insieme al lettore un percorso di crescita verso nuove consapevolezze e responsabilità. Le sorelle March non sono fatte con lo stampino, anzi sono molto diverse le une dalle altre: hanno fragilità e insicurezze, ma anche grandi sogni e obiettivi. Le nostre piccole donne non sono sempre perfette, ma si dimostrano determinate e intraprendenti, rendendo così il racconto della loro vita un esempio positivo per moltissime persone, al di là del genere.
La metà di niente di Catherine Dunne è invece un libro molto meno conosciuto, anche se decisamente più contemporaneo. È un romanzo sulla vita quotidiana, eppure è intriso di forza d’animo. Si tratta della storia di una donna dopo un inaspettato divorzio: chi è lei senza il marito? Una moglie, una madre o una donna? Pagina dopo pagina, assistiamo alla trasformazione di Rose: se all’inizio la sua personalità si rifletteva nei soliti stereotipi, dopo aver toccato il fondo tutte le sue forze vengono usate per rompere gli schemi in cui era rinchiusa e diventare, infine, una donna emancipata e indipendente.

Catherine Dunne ci insegna, grazie al suo libro, che non siamo la metà di una mela, delle persone che hanno un senso solo se riempite dalla presenza di un’altra persona: siamo completi, liberi, autonomi, fragili e bellissimi in quanto individui. Il genere non conta.
Sempre in riferimento all’importanza del linguaggio in tema di stereotipi, in particolare quelli che riguardano le donne, vi lascio il link per vedere il monologo di Paola Cortellesi al David di Donatello nel 2018. Buona visione!