Room, Brie Larson, Lenny Abrahamson, Jacob Tremblay, romanzo, Emma Donoghue, oscar, premio oscar, miglior attrice protagonista, Golden Globe, cinema

Room – entrare ed uscire dalla caverna di Platone

“Room” nar­ra una vicen­da ango­scian­te, tre­men­da e emo­ti­va­men­te pesan­te che però vie­ne por­ta­ta in sce­na con cura, leg­ge­rez­za, ele­gan­za e soprat­tut­to con testa.

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La sto­ria vede pro­ta­go­ni­sta una ragaz­za di 24 anni costret­ta a vive­re all’interno di una stan­za, poi­ché rapi­ta set­te anni pri­ma. Vit­ti­ma di costan­ti vio­len­ze ses­sua­li, Joy par­to­ri­sce anche un figlio all’interno dell’antro nel qua­le è costret­ta a soprav­vi­ve­re. 

Que­sto pic­co­lo bam­bi­no ha cin­que anni, si chia­ma Jack, è frut­to di uno stu­pro e non ha idea di cosa sia il mon­do, per­ché tut­to ciò che cono­sce sono quel­le pic­co­lis­si­me quat­tro mura dove “vive”.

Il richia­mo di que­sto film al mito del­la caver­na di Pla­to­ne è sin da subi­to pale­se. Met­te a disa­gio lo spet­ta­to­re sia per la situa­zio­ne orren­da alla qua­le assi­ste, sia per­ché le vicen­de di Jack sono con­trap­po­ste a quel­le del­la madre, che per dicias­set­te anni ha potu­to con­dur­re una vita nor­ma­le, pri­ma di esse­re rapi­ta. Si crea quin­di sin da subi­to un con­tra­sto in gra­do di enfa­tiz­za­re le emo­zio­ni por­ta­te in sce­na.

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Come vie­ne spie­ga­to anche dal­lo stes­so trai­ler del film, ad un cer­to pun­to del­la sto­ria Joy e Jack riu­sci­ran­no a scap­pa­re dal­la pri­gio­nia del car­ce­rie­re. Ma tale momen­to avvie­ne sola­men­te a metà del­la pel­li­co­la, lascian­do quin­di diver­so tem­po per lo svi­lup­po di ulte­rio­ri even­ti.

Infat­ti, sia nei film ma soprat­tut­to per quan­to riguar­da i fat­ti di cro­na­ca rea­li, chi si ritro­va a guar­da­re si fer­ma sem­pre e sola­men­te al momen­to in cui le vit­ti­me ven­go­no sal­va­te, pen­san­do che a par­ti­re da allo­ra tut­to andrà bene. Pur­trop­po, la real­tà dei fat­ti è ben diver­sa ed i pro­ble­mi e le con­se­guen­ze del­le vio­len­ze han­no sem­pre un prez­zo altis­si­mo con cui le vit­ti­me sono costret­te a con­fron­tar­si.

Una vio­len­za por­ta trau­mi, pro­ble­mi per­so­na­li e fami­glia­ri, shock emo­ti­vi, dif­fi­col­tà nel rico­min­cia­re a vive­re o nel cer­ca­re di ave­re una vita “nor­ma­le” (per quan­to nor­ma­le pos­sa esse­re dopo aver subi­to mol­te­pli­ci dan­ni fisi­ci e/o psi­co­lo­gi­ci).

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Room rac­con­ta magi­stral­men­te que­sto aspet­to e lo fa anche gra­zie ad un per­so­nag­gio mera­vi­glio­so come quel­lo di Jack: un bam­bi­no che non cono­sce asso­lu­ta­men­te nul­la del mon­do. 

Ver­so la metà del film, subi­to dopo la sce­na estre­ma­men­te cari­ca di pathos in cui lui e la madre si riu­ni­sco­no dopo la fuga, allo spet­ta­to­re vie­ne rac­con­ta­ta un’altra sto­ria. Una sto­ria di cui qua­si mai si sen­te par­la­re: “il dopo”.

Que­sta fac­cia del­la meda­glia è per cer­ti ver­si anco­ra più noci­va per le vit­ti­me. Rap­por­tar­si con una real­tà del­la qua­le non han­no più fat­to par­te per anni è dif­fi­ci­le. Le vit­ti­me non san­no più da che par­te girar­si per cer­ca­re di anda­re avan­ti e rico­no­scer­si, si sen­to­no estra­nia­te, pri­ve di per­so­na­li­tà.

Joy evi­den­zia mol­to bene que­sto aspet­to. Subi­sce infat­ti una regres­sio­ne emo­ti­va ed una cri­si per­so­na­le. È sta­ta rapi­ta a dicias­set­te anni, pri­va­ta del­la sua vita e di tut­to ciò che una ragaz­zi­na a quell’età dovreb­be poter fare. Jack, inve­ce, rie­sce pia­no pia­no ad adat­tar­si ad un mon­do che, mal­gra­do sia velo­ce, cao­ti­co, e com­pli­ca­to, per­met­te di con­vi­ve­re con una real­tà del tut­to nuo­va all’infuori del­la caver­na.

Il film rie­sce anche a descri­ve­re il ruo­lo nega­ti­vo che spes­so i mass-media han­no: l’interesse “egoi­sti­co” per lo share, e non per il benes­se­re del­le vit­ti­me. Fin trop­po spes­so si intro­met­to­no nel­la vita di colo­ro che han­no sola­men­te biso­gno di tem­po, infi­schian­do­se­ne del­la situa­zio­ne e cau­san­do ed ali­men­tan­do i gigan­te­schi pro­ble­mi già pre­sen­ti, sfo­cian­do anche nel “vic­tim bla­ming”.

L’utilizzo dei det­ta­gli e dei pri­mis­si­mi pia­ni sui vol­ti di Joy e Jack, le inqua­dra­tu­re che raf­fi­gu­ra­no spes­so i per­so­nag­gi come in trap­po­la o schiac­cia­ti e la scel­ta di non mostra­re atti­va­men­te le varie vio­len­ze per­met­to­no al film di far immer­ge­re anco­ra di più lo spet­ta­to­re in una sto­ria che pur­trop­po risul­ta sem­pre ter­ri­bil­men­te attua­le. 

Cer­ca di dare voce a chi pur­trop­po non ne ha avu­to la pos­si­bi­li­tà, infor­man­do anche sull’importanza del pen­sa­re al perio­do post-vio­len­za, che per cer­ti ver­si potreb­be esse­re anche peg­gio­re del­la vio­len­za stes­sa.