Secondo i dati riportati da Netflix, Squid Game è la serie più vista di sempre sulla piattaforma, con 111 milioni di account raggiunti in meno di un mese.
L’opera del regista sudcoreano Hwang Dong-hyuk ci ha messo oltre 10 anni per essere pronta a sbarcare sul piccolo schermo ma solo 17 giorni per diventare un fenomeno di rilevanza mondiale. C’è chi la definisce un “oggetto geopolitico” per la sua capacità di raccontare il mondo che ci circonda, strumento del soft power di una Nazione, e c’è chi la descrive come una perfetta fotografia delle disuguaglianze sociali e un’importante chiave di lettura per comprendere la realtà attuale. Ma i recenti fatti di cronaca parlano di Squid Game in un altro modo.

FERMARE IL GIOCO
Nei giorni scorsi è stata indetta una petizione per chiedere la rimozione della serie a seguito dei diversi episodi di bullismo rilevati nelle scuole elementari, dove venivano replicati i giochi di Squid Game. I genitori vogliono fermare a tutti costi questa emulazione di atti violenti e, con loro, anche la Fondazione Carolina che ha lanciato l’appello diretto alla Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza.
La Onlus, dedicata alla prima vittima di cyberbullismo in Italia, Carolina Picchio, richiede un’azione concreta: una «censura vecchio stampo». Così la chiama Ivano Zoppi, referente della Fondazione, e aggiunge: «Qualcuno storcerà il naso, ma oramai sembra l’unico strumento possibile a difesa del principio di incolumità dei minori».
Anche la dottoressa Anna Oliverio Ferraris, ordinario di Psicologia dello sviluppo alla Sapienza di Roma, si è espressa in merito alla questione in un’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano. La professoressa sottolinea la tendenza dei ragazzini ad imitare ciò che viene mostrato loro come un divertimento e a replicare le azioni dei personaggi più forti. «Non so se vietare un programma inzeppato di scene di violenza sia vera e propria censura, mi sembra piuttosto una misura contro l’istigazione alla violenza» dice riguardo la proposta di intervento verso Squid Game.

EDUCARE INVECE DI CENSURARE
Il problema sembra essere quindi la violenza, che in questo caso viene sradicata dal contesto in cui ci aspetteremmo di trovarla, e viene posta nella dimensione del gioco, un ambiente che attira i più piccoli. I contrari all’approccio della censura specificano però che Netflix suggerisce la visione di Squid Game a utenti di età superiore ai 14 anni e sostengono che il vero problema è dato dal motivo per cui la serie sia diventata così virale anche tra i bambini.
Il vero problema è la scarsa vigilanza, da parte dei genitori, sui prodotti che vengono fruiti dai propri figli e l’assenza di un’educazione digitale. La soluzione non può essere la censura, si deve pensare a priori istruendo e a posteriori controllando o fornendo i mezzi per decodificare i messaggi nel modo più adatto.
Rimuovere Squid Game, oltre a rappresentare una scelta poco formativa, sarebbe anche inefficace dato che i contenuti della serie verrebbero raggiunti in altri modi ed è proprio questo ciò su cui dovremmo riflettere. Le competizioni violente che sono uscite da quell’universo brutale riversandosi tra i banchi di scuola mostrano quanto oggi sia difficile, se non impossibile, fermare la diffusione di un prodotto in rete. Emerge così il lato cupo, in parte sconosciuto, del termine “viralità” che vediamo spesso in modo positivo come una fonte di connessioni.

Dietro alle scene cruente, che hanno come sfondo un parco giochi in cui domina il colore rosso, c’è molto più che violenza. C’è l’idea della lotta di classe, c’è la condizione disperata di 456 persone ai margini della società, c’è la volontà di indagare i confini della natura umana e ci sono emozioni potenti e reali.
Squid Game ci ha posto di fronte ad una scelta, la stessa che si sono trovati a compiere i giocatori. Tasto verde per andare avanti, tasto rosso per fermare tutto.
Voi quale pulsante scegliereste?
