
Claude Monet, 1872, porto di Le Havre. Sono le prime ore del mattino e il pittore decide di ritrarre il porticciolo della sua città natale. Due anni dopo gli chiederanno di dare un titolo all’opera per una mostra organizzata a Parigi da un gruppo di artisti che hanno intenzione di rompere gli schemi dell’arte tradizionale, ma non la intitolerà “ritratto” o “visione del porto di Le Havre”, bensì “Impressione”.
Nasce dal titolo di questa opera il movimento cosiddetto Impressionista che trova il proprio periodo di massimo splendore in Francia, negli anni che vanno dal 1870 ai primi del Novecento.
Quando Monet dipinge l’alba sul mare
della Normandia sono passati circa 25 anni dall’invenzione
ufficiale della fotografia per come la conosciamo oggigiorno. L’arte,
agli occhi di Monet e di tutta la cerchia degli impressionisti, non
ha più la funzione di raffigurare in modo preciso e sistematico la
realtà (a quello ci pensa la fotografia), ma piuttosto deve fare in
modo di suscitare in chi si trovi davanti all’opera emozioni
immediate, pure e vibranti. Il colore e la luce (elemento che assume
sempre più importanza con lo svilupparsi dell’arte fotografica)
dominano i dipinti. I contorni non sono più definiti da linee, ma
dal cambio di tonalità. La profondità è data dall’alternarsi di
toni freddi su toni caldi. Le pennellate sono rapide, istintive
perché catturino l’istante non per come oggettivamente è,
caratteristica propria delle fotografie, ma per come appare agli
occhi di chi sta dipingendo. E proprio questa indefinitezza lascia
anche una più libera interpretazione agli spettatori.

Per quanto potrebbe apparirci strano, al loro esordio gli impressionisti non godettero di buona fama e reputazione tra i contemporanei, tanto che il nome stesso che li identificava, Impressionisti appunto, fu attribuito loro in primis dal critico d’arte Louis Leroy in senso dispregiativo, per sottolineare la confusione e la mancanza di chiarezza delle loro opere. Il gruppo di artisti decise però di adottare come nome ufficiale del Movimento proprio quello usato negativamente dal critico, ben consapevoli di aver rivoluzionato il concetto di arte.
Così come agli uomini della Parigi di fine Ottocento, abituati alle opere neoclassiche di pittori come David, doveva far strano e risultare quasi disturbante l’innovazione portata dai nuovi Impressionisti, a noi oggi viene difficile, in molti casi, capire ed ammirare l’arte contemporanea tanto che, proprio come facevano il critico Leroy ed i suoi seguaci, alle volte stentiamo a definirla tale. È il tempo che svela l’arte. I grandi artisti, come i grandi geni in tutti i campi, risultano spesso essere un passo avanti rispetto agli altri uomini e mettono in discussione quelle che sono le convinzioni ed i gusti comuni dell’epoca in cui vivono.

Dal 1 agosto al 13 dicembre presso il Teatro degli Arcimboldi di Milano è stata allestita la “Claude Monet Immersive Experience”. La mostra nella prima sezione presenta dei pannelli di spiegazione riguardo l’arte impressionista ed il pittore Claude Monet, affiancati da alcune delle sue opere più conosciute (non originali).
La seconda parte, invece, consiste in uno spettacolo virtuale che sulle quattro pareti della stanza e sul pavimento mostra i principali dipinti del francese di Le Havre suddivisi in base ai numerosi viaggi da lui compiuti nel corso della vita.
Personalmente confesso di aver sempre trovato difficile seguire ed apprezzare le mostre multimediali, convinta che un dipinto debba essere visto così com’è, senza di mezzo uno schermo o un proiettore. Eppure mi sono dovuta ricredere.
Immersi nell’arte e nella musica di sottofondo, accuratamente scelta, si perde il senso del tempo e ci si lascia trasportare, o forse sarebbe meglio dire impressionare, dai colori, dalla luce e dalla natura di Monet.
Rebecca Spadone