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Un altro giro (Druk) – di Thomas Vintenberg

La tra­ma di fon­do
Il regi­sta di quel capo­la­vo­ro che è “Il sospet­to” (The hunt) del 2012, tor­na a deli­ziar­ci quest’anno con la sua ulti­ma fati­ca: “Un altro giro”. Vin­ten­berg ha dedi­ca­to il film alla figlia dician­no­ven­ne Ida, scom­par­sa poco pri­ma dell’inizio del­le ripre­se a cau­sa di un inci­den­te stra­da­le.

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Inter­pre­ta­to magi­stral­men­te da un Mads Mik­kel­sen che dimo­stra di nuo­vo di esse­re uno dei miglio­ri atto­ri viven­ti, il film costi­tui­sce uno sguar­do par­ti­co­la­re sul­la depres­sio­ne e sull’alcolismo. Il cast è costi­tui­to dal­la mag­gior par­te da atto­ri fetic­ci di Vin­ten­berg, tra i qua­li spic­ca, oltre al già cita­to Mik­kel­sen, Tho­mas Bo Lar­sen.

La sto­ria ruo­ta attor­no alle vicen­de di quat­tro ami­ci, tut­ti inse­gnan­ti nel­la stes­sa scuo­la, che deci­do­no di effet­tua­re un’indagine in nome del­la “scien­za”: cer­ca­no di met­te­re in pra­ti­ca, per testar­ne la veri­di­ci­tà, la fan­to­ma­ti­ca teo­ria del­lo psi­chia­tra Finn Skår­de­rud. Secon­do que­sta teo­ria l’uomo sareb­be nato con un defi­cit da alcol pari allo 0,05%, con­di­zio­ne che lo ren­de­reb­be meno atti­vo nel­le rela­zio­ni socia­li.

Il tem­po per­du­to
I per­so­nag­gi di “Un altro giro” vivo­no una pro­fon­da sof­fe­ren­za inte­rio­re dovu­ta alle dif­fi­col­tà di comu­ni­ca­zio­ne con le pro­prie fami­glie e alla depres­sio­ne che li atta­na­glia. I pro­ta­go­ni­sti sem­bra­no infat­ti esse­re tut­ti nostal­gi­ci di una gio­vi­nez­za ormai pas­sa­ta del­la qua­le pos­so­no ormai esse­re sola­men­te spet­ta­to­ri ester­ni.

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Dei quat­tro per­so­nag­gi, due vivo­no ormai un rap­por­to tra­va­glia­to con le pro­prie mogli, gli altri due inve­ce fan­no i con­ti con la soli­tu­di­ne.

L’energia, la pas­sio­ne, la cari­ca ribel­le, l’eros dell’età gio­va­ni­le, sem­bra­no a trat­ti non esse­re mai esi­sti­ti, qua­si come se appar­te­nes­se­ro ad un vec­chio sogno. Non a caso il film si apre pro­prio con un afo­ri­sma del filo­so­fo Søren Kier­ke­gaard che reci­ta: “Cos’è la gio­vi­nez­za? Un sogno. Cos’è l’amore? Il con­te­nu­to del sogno”.

La sof­fe­ren­za dei per­so­nag­gi
In que­sto con­te­sto l’alcool divie­ne uno stru­men­to attra­ver­so il qua­le i pro­ta­go­ni­sti cer­ca­no di riap­pro­priar­si di una vita che sem­bra non appar­te­ner­gli più.

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Ini­zial­men­te “l’esperimento scien­ti­fi­co” sem­bra pro­dur­re otti­mi risul­ta­ti, per­met­ten­do ai quat­tro di miglio­ra­re le loro rela­zio­ni socia­li sia in fami­glia che sul lavo­ro con gli stu­den­ti. Ben pre­sto tut­ta­via i per­so­nag­gi per­do­no il con­trol­lo nell’assunzione di alcool.

L’illusione di ave­re il con­trol­lo crol­la e divie­ne chia­ro che l’esperimento alco­li­co in real­tà è qual­co­sa che cela un pro­fon­do males­se­re esi­sten­zia­le. Que­sta con­di­zio­ne di sof­fe­ren­za vie­ne d’altra par­te comu­ni­ca­ta ade­gua­ta­men­te dal­la regia di Vin­ten­berg: la came­ra si con­cen­tra for­te­men­te nel met­te­re in pri­mo pia­no le espres­sio­ni dei per­so­nag­gi e il movi­men­to dei loro cor­pi quan­do sono sot­to l’effetto dell’alcool. Risul­ta inol­tre feno­me­na­le l’abilità degli atto­ri, Mik­kel­sen su tut­ti, di tra­smet­te­re sta­ti d’animo sem­pli­ce­men­te attra­ver­so la mimi­ca fac­cia­le.

Un inno alla vita
La nar­ra­zio­ne pro­ce­de con un cli­max ascen­den­te che cul­mi­na in un even­to tra­gi­co che segna defi­ni­ti­va­men­te le vite dei pro­ta­go­ni­sti.

Tut­ta­via, nono­stan­te la dram­ma­ti­ci­tà del­le vicen­de che vivo­no i per­so­nag­gi, la par­te fina­le del film costi­tui­sce un vero e pro­prio inno alla vita. La sola sequen­za fina­le è suf­fi­cien­te ad infon­de­re allo spet­ta­to­re, di qual­sia­si età, una pro­fon­da voglia di vive­re.

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Sul­le note di What A Life degli Scar­let Plea­su­re, Mar­tin (Mads Mik­kel­sen) intra­pren­de una dan­za che ipno­tiz­za lo spet­ta­to­re. Duran­te la festa dei suoi stu­den­ti che festeg­gia­no l’ottenimento del diplo­ma, il pro­ta­go­ni­sta si lascia anda­re e per­de ogni ini­bi­zio­ne. 

Le sue moven­ze ci cat­tu­ra­no e ci comu­ni­ca­no che Mar­tin ha final­men­te ritro­va­to se stes­so, ha deci­so di abbrac­cia­re la vita, le cose nega­ti­ve e posi­ti­ve, e che è pron­to a ripro­var­ci, a tor­na­re a vive­re.

“Un altro giro” si dimo­stra un film imper­di­bi­le, adat­to a chiun­que, e costi­tui­sce il miglior omag­gio che il regi­sta potes­se fare alla memo­ria del­la pro­pria figlia.